Siamo antifascisti e antirazzisti. Ed è esattamente per questo che siamo antisionisti. (Rete Italiana ISM)


lunedì 14 aprile 2014

Si dice che "chi ha compagni, non muore mai."



Questa notte ti vorrei scrivere una lettera, vorrei scriverla come se tu potessi leggerla, come fingendo.



Ricordo della tua scritta “mukawama” sul braccio, che vuol dire resistenza.

Resistenza, come quella dei contadini palestinesi, come quella dei partigiani sulle nostre montagne.

Ricordo di come spiegavi che se siamo tristi non abbiamo il diritto di portare la nostra tristezza sui palestinesi, di come a volte ti chiudevi in casa (chissà quali ferite ti stavi curando), di come quando invece uscivi eri sempre pronto a scherzare e ridere con tutti e tutte. Quasi che avessi assunto come ruolo, quello di portare un po' di allegria intorno a te. Quasi che quell'allegria contagiosa, fosse essa stessa una forma di resistenza. Certamente lo era, senza il quasi.

Ricordo della tua scritta “mukawama” sul braccio, che vuol dire resistenza.

Di come quella resistenza l'avessi vissuta anche in Cisgiordania, prima di venire a Gaza. Di come insistevi dicendo che gli attivisti, prima di andare a Gaza, andassero in Cisgiordania. Di come per te fosse così importante che i due pezzi di Palestina occupati nel '67 fossero collegati.

E continua a venirmi in mente quella scritta, “mukawama” sul braccio.

Resistenza. E, quasi fosse naturale, la collego alla firma che mettevi, quando scrivevi di come il popolo palestinese resiste ad un'occupazione genocida, che dura da troppe decine di anni. Resistere significa restare umani, e restare umani significa resistere.

Mukawama sono anche la tenacia e la coerenza con cui portavi avanti la lotta contro il sionismo, senza dimenticare di contestualizzare, senza dimenticare chi eri e da dove venivi, senza smettere di parlare anche dell'altra resistenza, quella dei vicini di mediterraneo, quella delle strade e delle piazze nelle nostre città.

Sul braccio avevi tatuato “mukawama”.

E quella resistenza la portavi con te in ogni attimo, in ogni respiro. In ogni sorriso, in ogni battuta scherzosa. Ogni volta che che riuscivi a comunicare con chi avevi di fronte in maniera chiarissima, sebbene non parlasi perfettamente l'inglese, e il tuo arabo fosse “shway shway”. Certe volte non è necessario parlare perfettamente una lingua, quando i cuori e le menti si intendono. Quando con un sorriso riuscivi a dire “fratello” senza aprire bocca. Quando ogni volta che si andava ad una manifestazione, a sentir te sembrava che qualsiasi cosa fosse un cattivo presagio e, scherzando, proferivi ogni sorta di funesti presagi.

“Mukawama”, resistenza, è un nome collettivo.

Come quando insistevi, perché si provasse a lavorare tutti e tutte assieme. Senza accomodare la tua posizione, senza fare sconti su ciò che è giusto; ma nondimeno senza negare la chiacchierata, la battuta, o perlomeno il sorriso a nessuno. Di come abbracciassi i palestinesi che avevi di fronte, con un abbraccio saldo e fraterno, indipendentemente da quante cose questi potessero aver fatto diversamente da come avresti fatto tu. Credo che ci volesse un fortissimo autocontrollo, cioè, una grande forza. E, anche, tanta umiltà. La stessa umiltà che serve per capire che la lotta è tale solo se collettiva, che ciascuno è necessario, ma nessuno fondamentale. Che non esistono eroi, ma si può vincere questa lotta solo assieme.

Ricordo di come sei stato obbligato dalle circostanze a diventare reporter a Gaza. Eri un attivista, non un reporter, e lo sei rimasto orgogliosamente fino alla fine. Eppure, quando non c'era alternativa, hai dovuto fare anche il reporter. E quando c'era da farlo, lo facevi bene.



La prima volta che ho incontrato te, e la tua scritta “mukawama” sul braccio, era di fronte al porto di Gaza. Fumando sciscia. Osservando le luci di la del porto. Quelle luci che, dicevi, venivano dai pozzi petroliferi israeliani “si dice che la ragione per cui i pescatori palestinesi non possono uscire a pescare oltre le 3 miglia siano quei pozzi” raccontavi. Li conoscevi bene quei pescatori, anche perché li avevi accompagnati nelle barche, a cercare di valicare il limite assurdo che l'occupazione sionista aveva imposto loro. Come i contadini, come i guidatori di ambulanze.



Te non lo sai, ma per giorni, da dopo che ti hanno ammazzato, sono continuate le manifestazioni a Gaza per ricordarti. Te non lo sai, ma tutt'oggi, anche persone che te non hai mai conosciuto, continuano a indossare magliette col tuo volto, perché non ti dimenticano. Può darsi che tu sappia che ci sono decine di persone che si sono avvicinate alla Palestina perché ti hanno conosciuto, ma non credo che tu sappia che a centinaia hanno scoperto il dramma dell'occupazione e la forza di un popolo che resiste da dopo la tua morte. Vorrei che sapessi che se siamo così tanti è anche per merito tuo. Ti preferiremmo tutti ancora al nostro fianco, ma sappiamo che la tua è stata una vita piena, e pienamente vissuta.



C'era quel tizio, quello del fronte, a Khan Younis. Era preoccupato, perché diceva che ora che la mano che ti aveva fisicamente ammazzato era palestinese, dall'Italia non avrebbero capito a chi quell'omicidio avrebbe fatto comodo, quali siano stati i mandanti che ne traevano vantaggio. Diceva, che ci sarebbero voluti altri 60 anni, per riguadagnare la solidarietà che c'era prima. Diceva così ed io gli rispondevo che stava succedendo il contrario, perché a centinaia volevano continuare a fare ciò che anche tu stavi facendo, a centinaia avrebbero portato avanti la lotta che era anche tua.



Certe volte penso, Vik, vorrei non essere stata a Gaza quella notte. Vorrei non essere mai stata in quella casa. Vorrei non averti visto steso a terra morto con quel laccio di plastica al collo che ti aveva strangolato. Con la benda sollevata, con i polsi feriti da ciò con cui ti avevano legato. Morto in una maniera orribile, in cui certamente non avresti voluto morire. Vorrei non essere stata testimone, vorrei non averlo dovuto dire a nessuno, vorrei non fosse mai accaduto e se avesse dovuto accadere avrei voluto essere distante. Distante un milione di chilometri e chiudere gli occhi con le mani fingendo che non era vero. Invece, così, non ho più potuto fingere che non era vero. Avevamo finito di giocare.



Sai, dalle mie parti c'è un detto che dice che “chi ha compagni, non muore mai”, e io penso che non sia vero. Perché tu avevi compagni, e tanti, e tu sei morto. Cioè, anche tu che avevi compagni hai smesso di respirare. Si dice pure che “chi muore, vive nella lotta”. E, nonostante gli slogan, nonostante quanto possiamo lottare qui, te resti morto. Non credo in nessun dio, e nemmeno nell'aldilà: morto sei e morto resti. Però forse questi due detti non significano che potrai mai tornare in vita, ma che di sicuro non ci dimenticheremo di te. Eppure, il ricordo non è sufficiente. Vorrei dire, il ricordo è addirittura inutile, se non è seguito dall'azione. C'è una cosa di cui sono certa: se muore un compagno, ci saranno altri dieci, altri mille, che porteranno avanti le sue lotte. Avere compagni significa agire in maniera collettiva, e, collettivamente, sappiamo che quando lottiamo per la libertà, sia in Palestina o ovunque altro, in qualche modo lo facciamo anche con te. Siamo fisicamente uno di meno, ma in quello che collettivamente facciamo, te sei con noi. E, collettivamente, sappiamo che un giorno vinceremo. E che in quella vittoria ci sarai anche tu.



E comunque sia, fratello, che ci hai lasciato una bella responsabilità! E ti pare il caso, io dico, di andartene così? A metà del lavoro, lasciando una traccia a malapena visibile per il futuro? Ci fosse un al di la, ti tirerei per le orecchie, altrochè! E a noi non resta che rimboccarci le maniche, per fare si che almeno un po' sia vero quel detto che dice che “chi ha compagni, non muore mai”.


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