Siamo antifascisti e antirazzisti. Ed è esattamente per questo che siamo antisionisti. (Rete Italiana ISM)


martedì 26 novembre 2013

Un giorno a Khuza'a


L'autista non arriva fino a casa di Taraji.



L'autista non arriva fino a casa di Taraji. Mi porta fino a metà della strada dove abita, e poi dice che devo proseguire da sola. Non è un problema proseguire da sola, avrò percorso quella strada centinaia di volte.

La via dove abita Taraji si avvicina molto al confine. Casa sua si trova alla fine della strada, a poche centinaia di metri dal confine. Dal tetto, quando è giorno, si vedono alcuni campi; poi la terra brulla della no-go zone imposta da Israele con le armi, dove una volta crescevano ulivi ed aranci mentre ora i bulldozer sionisti distruggono qualsiasi cosa si cerchi di coltivare; e la barriera di separazione con le torrette e i cumuli di terra che servono a nascondere i mezzi militari di occupazione. È comprensibile che l'autista non voglia guidare fino a li.

L'autista non arriva fino a casa di Taraji. Dice che se vi fosse stata la luce ci sarebbe andato, ma così, al buio, non se la sente.

Manca la corrente in tutto il villaggio, ed è buio perché il sole è ormai tramontato. Con l'auto ha già percorso diverse stradine dentro il villaggio con la sola luce di fari, andando piano per paura di investire qualcuno. Non mi pare strano che, senza luce, preferisca non avvicinarsi troppo al confine. Tra l'altro, mi ha chiesto un compenso extra per arrivare fino a li. Sta bene, vado a piedi, c'è una fioca luce che viene da un fuoco acceso per cucinare nel cortile di una casa: con quel che costa il gas dopo la chiusura dei tunnel, qui si cucina a legna. Non sono la sola a muovermi a piedi su quella strada, in pochi minuti mi trovo circondata da bambini, in particolare una ragazzina sui dieci anni che porta in braccio il fratellino più piccolo, mi chiede come mi chiamo, le rispondo e le faccio la stessa domanda: dieci bambini saltellanti nella fioca luce iniziano a gridare i loro nomi, Noor, Mohammed, Tamer...

L'autista non arriva fino a casa di Taraji. Ma nonostante questo, casa di Taraji è piena di gente.

Ci sono le sue quattro figlie, ed alcune amiche con cui beve il tè. Si parla del più e del meno, si spettegola parecchio. Intanto è tornata la corrente, alcune delle ragazze provano a guardare la televisione, ma il segnale è disturbato dai droni israeliani. Le chiamano zannane a causa del rumore che fanno, un ronzo continuo “zzzzzzzzzzzzzzzzz”, che, anche se sono solo droni di ricognizione, ogni volta ricorda quando gli stessi droni sganciavano bombe, ed ogni volta porta a domandarsi se e dove bombarderanno ancora. E volando sopra il cielo di Gaza fanno, appunto, interferenza con il segnale della televisione. Arriva la quinta figlia, stava poco bene, ma arriva lo stesso col marito. Il marito si lamenta che non trova lavoro: faceva il muratore, e, da quando sono stati distrutti i tunnel con l'Egitto, non entra più materiale edile, quindi lui è tra le decine di migliaia di persone che lavoravano nel settore edile che adesso sono disoccupate: mi chiede se al mio paese c'è lavoro, quanto pagano un muratore, e se c'è possibilità di andarci a lavorare e poi tornare. “Saab”, difficile, rispondo.





La mattina, Taraji mi invita a fare sport.



La mattina, Taraji mi invita a fare sport. “Sport” vuol dire che si cammina a passo spedito per alcuni chilometri partendo da casa alle sei di mattina, così si inizia bene la giornata prima di andare a lavorare. A Taraji piace la mattina, perché può camminare senza incontrare troppe persone. 
È l'alba, l'aria è fresca, ci sono carretti trainati da asini (il cui numero si è accresciuto sempre a causa dell'aumento del costo del carburante), il panorama dell'alba è rilassante e si sentono di tanto in tanto degli spari. Gli spari vengono dalle torrette attrezzate con armi automatiche comandate a distanza dai sionisti. Taraji dice che ci stanno dando il buongiorno... ma che gentili! “buongiorno!” Rispondiamo noi. Loro sparano ancora. “buongiorno!” rispondiamo di nuovo. Ma pare che loro siano più persistenti di noi a dare il buongiorno. Qui si è talmente abituati agli spari che nemmeno le ragazzine che si si trovano per andare a scuola assieme sembrano farci caso. La scuola inizia molto presto, poco dopo le sei, perché le strutture sono poche e gli studenti sono tanti, così si ottimizzano gli spazi facendo due (o in qualche caso anche tre) turni, uno al mattino e uno al pomeriggio. Mentre “facciamo sport”, il ronzare delle zannane è incessante. C'è anche qualche f16 e dalle torrette continuano a dire “buongiorno!” a modo loro. Ma anche noi non ci facciamo troppo caso e continuiamo a chiacchierare del più e del meno.
La strada su cui stiamo camminando corre quasi parallela al confine, allontanandosene lentamente. Alle nostre spalle si trova la scuola, chiamata “shuhada khuza'a”, in onore a tutti i martiri di Khuza'a: essa è stata costruita a poche centinaia di metri dal confine, e talvolta non è possibile fare lezione per via degli spari israeliani, così i bambini e le bambine vengono mandati a casa prima del tempo. Taraji dice che le piacerebbe camminare sui sentieri che stanno alla nostra sinistra, perché li c'è più verde, ma non si può, visto che sono troppo vicini alla no-go zone unilateralmente imposta da Israele nella zona vicino alla barriera di separazione. Taraji è una donna forte: nonostante il marito fosse in carcere e dovesse allevare cinque figlie da sola, fino a due anni fa coordinava i rapporti tra i contadini di khuza'a e gli attivisti internazionali che li accompagnavano nei campi vicino il confine.

Scuola "Shuhada Khuza'a"




Vado a fare una passeggiata, con l'idea di salutare qualche vecchia amica.



Vado a fare una passeggiata, con l'idea di salutare qualche vecchia amica. Mi avvio nella stessa strada che avevo preso al mattino con Taraji, ma nella direzione opposta, verso la scuola. Dopo poche decine di metri mi ferma una signora, vuole che veda la sua casa, vuole che fotografi i danni causati dai proiettili sparati dai sionisti al confine. Ce n'è talmente tante di case così che acconsento, e poi riparto.


 
















Mi dirigo verso casa di Amal, poco più in la della scuola: sua figlia Wafa era stata colpita ad un ginocchio da un cecchino mentre tornava da scuola quattro anni fa, ma non la riesco a vedere perché si è sposata e quindi ha cambiato casa... prima di arrivare da Amal mi fermano i suoi vicini, e mi danno il benvenuto. Un uomo, che non è della famiglia, vuole raccontarmi di quando è stato ferito durante la prima intifada. Scrivo su un foglio il suo nome e la storia, e poi mi fermo li a chiacchierare... se non che, in dieci minuti, l'uomo cambia idea, mi chiede il foglio dove ho preso appunti, e me lo strappa sotto gli occhi. Le altre persone presenti gli chiedono perché, e lui risponde che se per caso il suo nome va in mano agli israeliani poi quelli gli bombardano la casa: ha paura di ritorsioni, e per questo non racconterò la storia. Come a dire che qui, non solo c'è da avere paura degli spari, delle bombe, dei droni e degli f16, c'è anche chi ha paura a testimoniare; e questo episodio conferma il coraggio che ha chi ancora si oppone, in qualsiasi modo, a quest'occupazione militare, a questo assedio, a queste atroci ingiustizie. Intanto le zannane continuano a farsi sentire, e anche gli f16. Quando raggiungo Amal sta facendo il pane, poco è cambiato da due anni fa, il suo pane è sempre buonissimo.

Etaf invece è palestinese nata in Libia e abita in un'altra zona, ancora più vicino al confine. Due anni fa viveva a casa sua solo di giorno, e poi andava a dormire in paese, per paura degli spari. Da un po' di tempo invece resta a casa sua anche di notte. Suo figlio vorrebbe tornare in Libia ma non può, perché non riesce ad avere il permesso: è convinto che lì troverebbe lavoro più facilmente che dentro Gaza assediata, e immagino che dalla sua prospettiva sia un ragionamento che fila. Etaf dice anche che tra poco pioverà, e che i contadini semineranno, e che spera che i sionisti non li attacchino. Prima di arrivare a casa di Samira, la strada gira a sinistra, allontanandosi dal confine. Gil abitanti hanno installato dei muri per proteggere la strada dagli spari provenienti dal confine.






Samira ora fa l'insegnante.



Samira ora fa l'insegnante. Due anni fa era disoccupata, è molto orgogliosa del suo lavoro. Samira abita piuttosto vicino al confine, in una zona che si chiama “manteqa an-najjar” “quartiere degli an-najjar”. Casa sua si trova a circa 350 metri dal confine, praticamente sotto una torretta di controllo e di attacco.

Durante l'attacco israeliano chiamato piombo fuso un missile sparato contro la casa dei vicini, dopo averla attraversata, ha rotto 3 muri della loro. Il 13 gennaio 2009, durante un'incursione di forze speciali, carri armati e spari li costringono a rimanere in casa, 40 persone, più di 20 bambini. Una donna, Roya'a Al Najar, presa dalla disperazione, esce dalla casa sventolando una bandiera bianca, sperando così di poter uscire e scappare in un posto più sicuro con la sua famiglia. I soldati israeliani le sparano, e lei, impossibilitata a muoversi, perde molto sangue. A causa degli spari e dei carri armati l'ambulanza non si più avvicinare, Yasmeen Al Najar, ragazza di 23 anni, prova ad avvicinarsi per prestarle soccorso, e le sparano ad una gamba. Un altro uomo, Mahmmod Al Najar esce dalla casa per prestare soccorso alle due donne: viene colpito alla testa e muore. Quando, 24 ore dopo, riesce ad arrivare l'ambulanza e loro riescono ad allontanarsi, Roya'a è morta dissanguata.

Alcuni giorni dopo, è stato di nuovo possibile tornare, e la casa era distrutta e con essa tutte le case attorno. Gli alberi di ulivo, alcuni anche di 50 anni, erano stati sradicati. Non era rimasto più nulla. Lei e il suo vicinato sono tornati ed hanno vissuto per più di due anni in piccolissimi rifugi col tetto in lamiera. Ora sono riusciti a ricostruirsi delle case, ma non si vogliono spostare da dove vivevano. Samira ora fa l'insegnante, nonostante tutto si è ricostruita una vita. Suzanne era con lei durante l'episodio della bandiera bianca, ma, al contrario di Samira, sta cercando lavoro: ha divorziato da poco e deve mantenere 7 figli. Mi guarda con i suoi occhi neri e mi chiede: “dove sono i diritti umani? Qui non abbiamo corrente se non sei ore ogni 18, perché prima ci hanno chiuso gli israeliani da una parte e adesso ci chiudono anche gli egiziani, e non entra il carburante per la centrale. Il gas è aumentato di prezzo e dobbiamo cucinare con la legna. Dal confine sparano se andiamo a coltivare la nostra terra, ci sono i carri armati che passano qui davanti e siamo vulnerabili. I confini sono chiusi, ma anche fossero aperti non me ne andrei di qui. I miei bambini studiano i diritti umani a scuola, perché non possono vederli applicati nella loro vita quotidiana?”

Una donna cucina a legna per la mancanza di gas










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