Siamo antifascisti e antirazzisti. Ed è esattamente per questo che siamo antisionisti. (Rete Italiana ISM)


domenica 30 gennaio 2011

Un comunicato delle forze di occupazione

Dalla fine di dicembre i casi di civili assassinati dalle forze di occupazione israeliane si sono intensificati. Prima di questo periodo erano frequenti i casi di persone colpite da proiettili alle gambe, con le ossa maciullate, ma ancora vive. Esiste un comunicato, rilasciato dall'entità sionista, in cui si dichiara che qualunque civile presente nella buffer zone viene considerato come copertura per i combattenti palestinesi.

Il 24 dicembre le forze di occupazione israeliane hanno ammazzato Salama Abu Hashish, 20 anni, a Beit Lahya, nord della striscia. Il 28 dicembre Hassan Mohammed Qedeh, 19 anni, è stato ucciso a Khuza'a, sud della striscia. Shaban Karmout, 65 anni, è morto dopo essere stato colpito da tre proiettili al petto e al collo il 16 gennaio a Beit Hannoun, nord. Amjad ElZaaneen, 17 anni, è stato assassinato da una granata sempre a Beit Hannoun. Tutte queste persone erano disarmate.

Saber vive a Beit Hannoun, nel nord della striscia, ed è il portavoce della “local iniziative Beit Hannoun”, che, tra le diverse attività, organizza manifestazioni nella buffer zone. Mostra un foglio di cui è appena giunto in possesso, si tratta di un comunicato firmato IDF (Israeli Defence Force) e datato 26 dicembre 2010:
“[...] La presenza di civili palestinesi nell'area adiacente alla barriera di sicurezza è usata da organizzazioni terroriste per coprire le loro attività, tra cui collocare congegni esplosivi, pianificare attacchi terroristici e tentare di rapire soldati dell'IDF. Per questa ragione, l'IDF non permetterà che nessuno sia presente in quest'area. [...]”.
È interessante notare il linguaggio con cui è scritto questo comunicato: quelle che di fatto sono forze di occupazione israeliane si autodefiniscono forze di difesa (Defence Force), il muro di segregazione, la barriera razzista e sionista che tiene imprigionati i palestinesi dentro la striscia di Gaza viene definita “barriera di sicurezza”, chi combatte per la libertà del suo popolo sotto occupazione, esercitando un diritto che anche l'ONU ha riconosciuto* viene definito “terrorista”, rendere ostaggio un soldato israeliano che invade il territorio di Gaza viene definito “rapimento”(i palestinesi nelle prigioni israeliane sono diverse migliaia, sequestrati nella loro terra e spesso non imputati di nessun crimine) ...e questa riportata è solo parte del comunicato ufficiale.

Saber: “È sbagliato chiamarla buffer zone (zona cuscinetto, in italiano) perché questo è il nome che le hanno dato le forze di occupazione israeliane: esso suppone che ci siano due stati in guerra, mentre in realtà qui la situazione non si può chiamare guerra ma occupazione. Il nome più adatto è “no-go zone”, area in cui è vietato l’accesso, perché è Israele che unilateralmente proibisce l’accesso ad un territorio che di fatto dovrebbe essere sotto la giurisdizione palestinese. Noi comunque continueremo a fare manifestazioni in quell’area, perché è la nostra terra, perché con noi ci sono i contadini e gli abitanti del posto, perché se adesso ci fermiamo, la prossima volta cosa faranno? Aumenteranno la no-go zone fino ai 500 metri? Con quali conseguenze per chi ci vive e per chi la coltiva? Visto che essa già adesso comprende il 35% delle terre coltivabili di Gaza, quali sarebbero le conseguenze per la nostra autosufficienza alimentare? L’ultima volta che abbiamo fatto una manifestazione c’erano con noi i parenti di Shaban Karmut. Non abbiamo intenzione di fermarci, non sarà un comunicato a farci tirare indietro, questa è la nostra terra e continueremo ad andarci!”

Forse quello che i sionisti, con la loro retorica, i loro F16, droni, armi automatiche ad altissima precisione e carri armati non hanno capito è che sono di fronte ad un popolo che ha la forza di stare in piedi anche con le ossa delle gambe spappolate dai dum dum. Un popolo la cui dignità non è stata messa in ginocchio da più di mezzo secolo di occupazione, un popolo che fa appello alla solidarietà internazionale per vedere riconosciuti i propri diritti.

Prendi nota
sono arabo
mi chiamo arabo non ho altro nome
sto fermo dove ogni altra cosa
trema di rabbia
ho messo radici qui
prima ancora degli ulivi e dei cedri
discendo da quelli che spingevano l’aratro
mio padre era povero contadino
senza terra né titoli
la mia casa una capanna di sterco.
Ti fa invidia?
[...]
Hai rubato le mie vigne
e la terra che avevo da dissodare
non hai lasciato nulla per i miei figli
soltanto i sassi
e ho sentito che il tuo governo
esproprierà anche i sassi
ebbene allora prendi nota che prima di tutto
non odio nessuno e neppure rubo
ma quando mi affamano
mangio la carne del mio oppressore
attento alla mia fame,
attento alla mia rabbia.
(Mahmud Darwish)


* La 20° sessione dell'assemblea generale ONU dichiarava "la legittimita' della lotta da parte dei popoli sotto oppressione coloniale, per esercitare il loro diritto all'autodeterminazione e all'indipendenza"; Il Protocollo Addizionale I della Convenzione di Ginevra del 1949 affermava che la lotta armata poteva essere usata, come ultima risorsa, come mezzo per esercitare il diritto all'autodeterminazione, per citare le due risoluzioni principali a proposito.

mercoledì 26 gennaio 2011

Altri feriti ed un morto in un'incursione a Beit Hannouon

Il mio pezzo per Wake Up News:

Per togliere le schegge conficcate in profondità nella carne è necessaria un’operazione, ma il medico sostiene che, prima che sia possibile operare, bisogna che i pazienti siano stabili. Quindi verranno operati all’indomani.

Sharaf, 19 anni, con una scheggia di una granata proveniente da un carro armato nel petto, parla con un filo di voce: «Stavamo raccogliendo pietre, quando abbiamo ricevuto la notizia di un’incursione ed abbiamo lasciato li il carretto, il cavallo e le pietre e siamo scappati. Poi, quando credevamo fosse tutto finito, siamo tornati: immediatamente i soldati israeliani hanno cominciato a sparare dal carro armato, la scheggia mi ha colpito subito, ma sono riuscito a scappare fino alla strada principale, poi sono svenuto».

Ismael, 16 anni, ha una scheggia profonda nella schiena, i medici hanno appena finito di estrargli diverse piccole schegge dalle gambe, anche lui verrà operato l’indomani. Appare ancora più debole, e racconta che gli avranno sparato 6 missili, i soldati sparavano in qualsiasi direzione i lavoratori tentassero di scappare. Anche lui, ferito, è riuscito a raggiungere la strada principale.

Oday, 11 anni, se l’è cavata con un graffio su una guancia. Racconta che tutti i giorni si recava nella stessa area per raccogliere pietre, con i sui fratelli ed a volte con suo cugino.
Suo cugino si chiamava Amjad aveva 18 anni ed è stato il secondo ad essere colpito: per il dottore ci ha messo cinque minuti a morire, perché quando lo hanno portato all’ospedale, più di due ore dopo l’incidente, aveva un grande buco sull’addome causato dai missili del carro armato.

I parenti non lo sapevano, lo credevano sanguinante impossibilitato a muoversi e hanno provato ad avvicinarsi al luogo dell’incidente con una bandiera bianca, ma gli spari dei soldati li hanno costretti a tornare indietro. Per due ore non hanno potuto avvicinarsi, e per due ore hanno continuato a pensare si potesse ancora fare qualche cosa per la vita di Amjad. Amjad, che era andato a raccogliere pietre e macerie per guadagnare da vivere anche per loro.

Lo zio di Sharaf ha dichiarato: «[I soldati israeliani] commettono crimini qui ogni giorno. Nessuno dei civili può più raggiungere la sua terra. Le nostre vite sono diventate incredibilmente difficili. Nell’ultimo periodo c’è stata una fortissima crescita della brutalità: contadini, pastori, tutti loro vengono assassinati adesso».

Quando il giorno dopo siamo arrivate al luogo dell’incidente potevamo vedere in lontananza il cadavere di un cavallo chiaro ed un carretto, molto lontano, perché abbiamo preferito non avvicinarci troppo.

Cosa passa nella testa del soldato israeliano quando spara ai ragazzini? Quando vede che si tratta di ragazzini, quando li osserva raccogliere pietre? Cosa pensa il soldato israeliano dentro al carro armato? Cosa lo spinge a sparare da dentro la torretta di controllo, quando sa perfettamente che si tratta di civili disarmati?

E dopo aver ucciso cosa fa? Beve una birra con gli amici? Accarezza sulla testa i suoi figli?

Boicotta israele

venerdì 21 gennaio 2011

Le macerie di ieri e la paura per domani

Il mio ultimo pezzo per Wake Up News:



Ahmad è magro, ha gli occhi scuri e somiglia un po’ a suo fratello. Suo fratello si chiama Mohammed Rajullah ed è co-autore del film To shoot an elephant insieme ad Alberto Arce. To shoot an elephant racconta l’inferno di Gaza durante l’operazione piombo fuso. In quel film si vedono le ambulanze che vanno a prendere i feriti, le bombe, il fosforo bianco, l’invasione via terra e tante immagini di persone, di donne uomini e bambini normali la cui vita è stata distrutta da un attacco condannato dal rapporto Goldstone dell’ONU, che ha provocato più di 1400 vittime, la maggior parte delle quali bambini, ed ha lasciato un numero inaccettabile di orfani. Un soldato israeliano ebbe a dire, finita la guerra, che «Questo è il lato più bello, prendendo in considerazione Gaza. Vedi una persona camminare per strada… Non è necessario che porti un’arma, non devi identificarlo con nulla e puoi semplicemente sparagli».
Ahmad è magro, ha gli occhi scuri e sta studiando per la maturità. Parla inglese piuttosto bene per la sua età e dice che all’università vuole studiare inglese per diventare traduttore. Mostra le rovine delle case distrutte durante la guerra. Questo è uno dei pochi posti dove rimangono le rovine, perché altrove i resti sono stati raccolti da persone che poi li hanno rivenduti per essere frantumati e farne cemento. Si può vedere qualche pezzo di cemento, qualche traccia di muri e colonne dalle quali sporgono come aculei di un istrice sbarre di ferro di sostegno. Ahmad racconta che alcuni se ne erano già andati, ma altri sono morti dentro a quelle case, quando sono state bombardate. Erano circondate da campi coltivati, ulivi e aranceti che sono stati sradicati e distrutti.



In una via vicina vive un anziano signore in abiti tradizionali che indica la sua ex casa distrutta e il campo di ulivi. In questo caso gli ulivi non sono stati sradicati, ma, a causa del fosforo bianco, non producono più olive. Racconta che quando hanno bombardato due anni fa sono morte tante persone, tra cui diversi bambini, ed altri bambini sono rimasti senza un genitore. Alcuni si sono spostati in un’altra area, e quelli che sono rimasti dicono che hanno paura, perché dalla torretta israeliana che si trova a 350-400 metri di distanza i soldati sparano quasi tutti i giorni. Ahmad traduce per quel che può, e parla poco. In fondo sta parlano del villaggio dove vive. Non riesco ad immaginare a cosa stia pensando. Talvolta sorride, ma ha qualcosa dentro che non posso comprendere in pieno.


L’altro giorno nella casa dove vivo, nello stesso villaggio di Ahmad, c’erano tre donne davanti al pc con internet. Il pc passato sotto i tunnel, perchè è l’unico modo in cui entrano i pc qui, e comperato con i soldi dello zio in Germania. Naima leggeva ad alta voce una notizia in arabo e, anche se io non conosco abbastanza bene l’arabo per capirlo,  il suo sguardo era preoccupato, anzi impaurito. Taragi mi guarda e mi dice, nel suo inglese non proprio perfetto: «The news say that Egypt told Hamas that Israel want to attack again Gaza, and Israel confirm».
Ecco, ve la lascio così questa notizia. Con l’inglese stentato di chi ha visto un massacro, e legge nelle notizie che l’incubo tornerà. Con l’incertezza, perché nessuno sa quando verrà nè con quale intensità.
«É ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce con forza e vigore DOPO il massacro di Gaza due anni fa, di farla sentire ADESSO, e cercare di prevenire il prossimo». – Ilan Pappe, storico.

mercoledì 19 gennaio 2011

Famiglia Al-Najar

 
La moglie di Tareq ha la carnagione chiara e lentiggini, sotto il velo rosa si intravedono dei capelli nerissimi; gli occhi, profondi e scuri, si stagliano in dei lineamenti aggraziati, che ricordano di più l'estremo oriente che il vicino oriente. È molto magra e porta un vestito verde di cotone, mi domando come faccia a non tremare di freddo con una temperatura di circa 10 gradi. Sta qui seduta su un secchio rovesciato all'aperto con 2 vicine di casa circondata da bambini e racconta la sua storia.

Fa parte della famiglia Al-Najar, e spiega che prima dell'attacco di Israele che è durato 22 giorni e che è stato chiamato “piombo fuso”, viveva con la sua famiglia in una bella casa. La casa era divisa in 2 parti: metà per lei e suo marito, metà per la famiglia del cognato.
Durante l'invasione un missile sparato contro la casa dei vicini, dopo averla attraversata, ha rotto 3 muri della loro. Il 13 gennaio 2009, durante un'incursione di forze speciali, carri armati e spari li hanno costretti a rimanere in casa, 40 persone, più di 20 bambini. Una donna, Roya'a Al Najar, presa dalla disperazione, esce dalla casa sventolando una bandiera bianca, sperando così di poter uscire e scappare in un posto più sicuro con la sua famiglia. I soldati israeliani le sparano, e lei, impossibilitata a muoversi, perde molto sangue. A causa degli spari e dei carri armati l'ambulanza non si più avvicinare, Yasmeen Al Najar, ragazza di 23 anni, prova ad avvicinarsi per prestarle soccorso, e le sparano ad una gamba. Un altro uomo, Mahmmod Al Najar esce dalla casa per prestare soccorso alle due donne: viene colpito alla testa e muore. Quando, 24 ore dopo, riesce ad arrivare l'ambulanza e loro riescono ad allontanarsi, Roya'a è morta dissanguata.
Alcuni giorni dopo, quando è stato di nuovo possibile tornare, la casa era distrutta e con essa tutte le case attorno. Gli alberi di ulivo, alcuni anche di 50 anni, erano stati sradicati. Non era rimasto più nulla. Niente casa, niente ulivi ed alberi da frutto, niente terra da coltivare: nessun avere e nessuna fonte di sostentamento. Per un mese hanno ricevuto aiuti dall'UNRWA per comperare cibo e coperte, e per un anno hanno ricevuto soldi per pagare l'affitto. Ma dopo la guerra il prezzo degli affitti era aumentato ed i soldi non erano più sufficienti. Così si sono visti costretti a mettere su queste quattro mura in cemento e costruirci un rifugio attorno. Il tetto è di lamiera e dentro non c'è spazio per più di due piccole stanze, e si riconosce una veranda esterna formata da teli.

I rifugi si trovano a circa 350 metri dal confine, in quest'area la paura dell'esercito israeliano pervade ogni azione quotidiana. “Due o tre volte alla settimana ci sono carri armati che passano a poche centinaia di metri da casa nostra, qui sparano tutti i giorni, ormai non ci facciamo più caso. Però quando sparano più forte i bambini si impauriscono... la notte non riescono a dormire, hanno gli incubi, piangono. Poi, quando fa buio ci sono i branchi di cani, sono pericolosi, vengono liberati dai soldati al confine”. Nei due piccoli ripari abitano quattro famiglie, con 16 bambini. Una delle bambine ha riportato gravi problemi agli occhi a causa del fosforo bianco ed è riuscita ad andare in Egitto per farsi curare ma non ha recuperato completamente la vista. Le quattro famiglie non si spostano dalla casa in un luogo sicuro perché non hanno altro posto dove andare.

Per andare a scuola i bambini devono percorrere una strada che passa vicino ad una torre di controllo da cui i soldati israeliani sparano, ed hanno paura. La scuola si trova anch'essa vicino al confine, ed ogni tanto i soldati sparano mentre i bambini sono a scuola: nell'ultimo mese i bambini sono stati mandati a casa tre volte prima della fine delle lezioni, a causa di incursioni e spari nell'area intorno all'edificio. Ai bambini AlNajar mancano i posti per giocare in maniera sicura, è pericoloso allontanarsi dalla casa. “Dopo le 6 non ci possiamo allontanare di casa, perché con il buio è pericoloso muoversi a causa degli spari. I nostri mariti hanno venduto le macerie delle case distrutte dal bombardamento perché venissero frantumate e vendute come materiale edile. Con i soldi ricavati abbiamo comperato il cibo per noi e per i bambini, ma ora non sappiamo più come fare: ci manca la farina per fare il pane...in casa non abbiamo coperte, non abbiamo mobili, fa freddo. Non arriva la corrente e abbiamo dei problemi per l'acqua potabile.”

La povertà può avere tante cause: più essere causata da un disastro naturale, come un'inondazione o un terremoto, può essere causata dal fatto che una qualche forma di disabilità impedisce di lavorare, sono tutte cause che nella maggior parte dei casi non è possibile evitare, questo provoca tristezza. Quando però la povertà è causata dal fatto che Israele distrugge abitazioni, sradica ulivi, proibisce l'accesso a terreni coltivabili; quando preoccuparsi del futuro significa paura degli spari, ansia che uno di quei proiettili possa colpire i propri figli e figlie, e terrore negli occhi delle stesse figlie e figli; beh, allora la tristezza si declina in rabbia, e viene voglia di urlare, nella speranza che qualcuno possa ascoltare e porre fine a questo e molte altre orribili situazioni.

p.s.: sebbene il problema resti politico e non economico, le famiglie mi hanno chiesto coperte e cibo. Se qualcuno è in contatto con organizzazioni in grado di provvedere per il cibo sul lungo periodo, o è in grado di fare donazioni, lascio la mia mail: todessil@gmail.com

Silvia Todeschini


mercoledì 12 gennaio 2011

Di spari, di morti, di bombe. Di terra, di libertà, di straordinaria forza.




Di mestiere ha fatto il contadino per 35 anni, si chiamava Shaban Mohammed Shaker Karmoot, classe 1964. Un tempo sulla sua terra a Beit Hannoun crescevano olivi, palme e limoni, poi una notte sono arrivati i carri armati israeliani e li hanno sradicati. Hanno aperto un varco su un muro della sua casa, hanno demolito la casa dei vicini davanti ai suoi occhi. Aveva 12 figli, nonostante quello che gli era successo aveva piantato nuove verdure ed alberi e si recava a coltivare la sua terra tutti i giorni, arrivava al campo alle sei e mezzo del mattino e tornava a casa alle quattro e mezzo del pomeriggio. Anche il 10 gennaio ci è andato, però non è tornato a casa perché gli hanno sparato: un colpo al collo, uno al petto ed uno all'addome. C'era l'intento di uccidere da parte di chi sparava, e Shaban è morto. È morto nella sua terra, coltivandola come faceva da 35 anni. Le forze di occupazione non sono riuscite ad incatenarlo con la paura degli spari e delle incursioni, e per impedirgli di coltivare hanno dovuto sparargli.

Il 4 Gennaio quattro bulldozer israeliani sono entrati nell'area vicina al confine nei pressi di Khuza'a, al sud della striscia, protetti da nove carri armati, due elicotteri Apache, due F16 e diversi droni. Hanno distrutto 50 dunam di terreno e almeno 13 famiglie hanno dovuto temporaneamente abbandonare le proprie abitazioni. Però dopo sono tornate alle loro case, nonostante i buchi dei proiettili su alcuni muri.
“Fanno queste incursioni e per spaventarci e mandarci via da casa nostra. Vogliono convincerci che ci sarà un'altra guerra e ci vogliono allontanare dalle nostre case in modo da poter fare ciò che vogliono senza ostacoli e senza testimoni. Ma noi non lasceremo le nostre case, questa è la nostra terra e noi rimarremo qui fino a che potremo.” (Shatha Abu Rjela)

Questa nuova guerra, però, sembra tristemente vicina: i due episodi sopra descritti sono solo un esempio di come sia evidente un'escalation nelle violenze israeliane. In dicembre, il primo ministro israeliano Silvan Shalom ha dichiarato che Tel Aviv dovrà “rispondere e rispondere con tutta la nostra forza” nel caso in cui i combattenti per la resistenza palestinese non smettessero di lanciare i loro missili fatti in casa.

Secondo Ilan Pappe, noto storico ed intellettuale di origini israeliane emigrato in Inghilterra: “C’è l’intenzione di abbattere la Striscia e la sua popolazione ancora una volta, ma con più brutalità e per un lasso di tempo più breve. […] Lo scenario per il prossimo round si sta schiudendo davanti ai nostri occhi e somiglia in modo deprimente alla stessa situazione in via di deterioramento che ha preceduto il massacro di Gaza due anni fa: bombardamenti quotidiani sulla Striscia e una politica che tenta di provocare Hamas così da giustificare un maggior numero di attacchi. […] È ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce con forza e vigore DOPO il massacro di Gaza due anni fa, di farla sentire ADESSO, e cercare di prevenire il prossimo.”

Ogni giorno a Khuza'a si sentono spari provenienti dalla torretta di controllo, ed ogni giorno o quasi i soldati israeliani sparano a contadini e pastori vicino al confine, causando gravi ferite quando non la morte del lavoratore in questione. Diverse volte al giorno i droni , gli F16 e gli Apache volano in cielo, e questi, quando non scaricano bombe, portano con sé un carico di oscuri ricordi e paura. La vita stessa di questi uomini, donne e bambini, è resistenza. È un grido che non vuole sottostare al giogo dell'occupazione. È un esempio di straordinaria forza. Ed è il momento, per coloro che dichiarano di amare la libertà, di compromettersi. Per prevenire la prossima guerra, ma prima ancora per supportare queste persone nella loro quotidiana resistenza.

In effetti tutto ciò di cui ho parlato ha a che fare con la libertà e non con la ricchezza. Non è un problema di elemosina, il punto non è che questa gente ha bisogno di aiuti materiali. Il problema è politico. Rivedo gli occhi fermi, decisi, quasi severi di Taragi, madre di 5 ragazze, con il marito in carcere e la casa ad un chilometro dal confine: “L'esercito israeliano ha invaso le terre che coltivavamo e le ha rese aride, ma non vogliamo aiuti economici per questo. Non vogliamo assistenza psicologica per i traumi causati dai soldati israeliani, dai loro bulldozer, dai loro proiettili, dai loro carri armati, dai loro Apaches, F16 e droni. Non vogliamo ne' soldi ne' psicologi. Noi, vogliamo che i soldati israeliani se ne vadano. Vogliamo non avere paura dei loro spari. Vogliamo vivere nella nostra terra. Vogliamo essere libere.”

sabato 1 gennaio 2011

Una casa di sole donne.


Siamo arrivati a casa della famiglia Aburgela, a Kusaa vicino Khan Younis, verso le 5 di pomeriggio. Una signora sui 40 anni racconta di essere madre di 5 figlie, che suo marito è in un carcere israeliano da 3 anni e deve restarci altri due perchè sotto tortura ha confessato un crimine che non aveva mai commesso. Durante piombo fuso una delle figlie ha respirato i vapori del fosforo bianco ed è stata molto male, e due giorni prima del nostro arrivo c’era stata un’incursione e sono rimaste chiuse in casa per tutto il tempo, che spesso di fronte a casa ci sono i carri armati…
Ci dicono che cercano il nostro aiuto. Allora ci offriamo di cercare contatti con associazioni che possano passare dei finanziamenti, soprattutto per coltivare, ci dicono no. Una di noi, che lavora in un centro di assistenza psicologia, propone loro di avere assistenza psicologica da questo, rifiutano. Lei ribadisce il concetto, la madre di 5 figlie comincia ad innervosirsi, non ne vuole sapere, dice che è psicologa pure lei, non cerca un’assistenza psicologica. A questo punto scopriamo che la figlia maggiore parla inglese molto bene, perché interviene nella discussione con l’energia di chi è convinta di avere di fronte qualcuno che non capisce una cosa ovvia:

“No, non hai capito. Noi non vogliamo che contattiate associazioni perché ci diano soldi. Non vogliamo denaro. Non vogliamo nemmeno che contattiate qualcuno che possa offrirci assistenza psicologica. Mia madre è assistente sociale, psicologa, e non ci serve altra assistenza psicologica. Noi vogliamo che le mie sorelle minori possano uscire di casa senza avere paura degli spari. Noi vogliamo addormentarci di notte senza avere paure di essere attaccati. Vogliamo semplicemente vivere tranquillamente a casa nostra. Vogliamo che scriviate la nostra storia così poi la gente lo sa e qui le cose cambiano. Qualche volta è arrivato qualche giornalista, gli abbiamo raccontato la storia e poi se ne è andato e non è cambiato nulla. Vogliamo che restiate qui, che non ci abbandoniate.”

Io la ho guardata e non ho saputo che risponderle. Cosa dovevo dirle? Che anche se la gente lo sa non cambia nulla, perché “la gente” non fa niente? Dovevo dirle che anche se mi fermavo li non cambiava molto per loro perché comunque io sono nella lista nera israeliana e non è che interrompono un’incursione perché un’attivista italiana si trova nelle vicinanze?
Ho spiegato loro tutto questo la sera, quando ho deciso di fermarmi.
Penso, ne ero convinta anche ad Hebron, che la mia o la nostra presenza in Palestina non cambi la situazione nell’immediato, che tanto agli israeliani non piacciamo come non gli piacciono i palestinesi, per loro non fa troppa differenza. La sera, nella notte, si sentivano i bulldozer che probabilmente stavano distruggendo qualche terra che nelle vicinanze qualche palestinese cercava di coltivare, la mattina ci siamo svegliate con due carri armati a poche centinaia di metri da casa, nel pomeriggio ce ne era uno, la sera di nuovo due e le figlie minori sono scappate a dormire dai vicini in centro città. No, non era un’incursione, è normale ed accade tutti i giorni.
Il fatto che io fossi li (e continui a restarci) non cambia questa situazione. Quello che cambia è che queste donne, forse, si sentono un po’ meno sole ed è, io credo, buona parte di quello che posso fare.

We don’t want your money. We want freedom!” (un professore di inglese, 2 anni fa, ad Hebron)

Boicotta israele.